E' tempo di maturità. Mi cimento molto scherzosamente, anzi per nulla, in una analisi di testo.
Dico per nulla perché non ho la minima intenzione di far scansioni metriche o studio delle figure retoriche. Mi hanno fatto conoscere una canzone e nei giorni e nei riascolti più pensieri si sono assiepati nella mia mente. Voglio condividerli, sperando un giorno di rileggerli trovandomi cresciuto.
(I diritti relativi alla canzone sono come sempre di Daniele Silvestri e dell'etichetta che li ha prodotti. Per le canzoni di Guccini e dei Mao diritti loro)
Se sarebbe facile vederci altre persone elevandosi a giudici, io mi sono trovato in una situazione scismatica.
Credo la prima parte rifletta molto bene alcune persone, me compreso.
"Quello che faccio e che continuo a difendere" esiste eccome. Dietro le scuse che spesso poniamo quando con altri non c'è solo sicurezza delle scelte, ma anche tutelarsi dalle critiche. Ci si racconta che i propri gesti siano quelli giusti, quelli a cui dare ragione. Talvolta si perde fette di razionalità lungo la via e ci si impantana...
Nota molto vicina, ancora, è poi
"non ti fidi di niente, neanche di me"; mi sono rivelato un discreto misantropo negli ultimi anni e soprattutto nelle relazioni ho serrato nel profondo la capacità di fidarmi, cedere le armi e abbandonarmi. Le ferite subite ogni volta che l'ho fatto mi hanno reso perennemente dubbioso e diffidente. I risultati non sono poi stati gran che: ho finito col ferire, col non vivere appieno.
"Non funzionerà mai
se non funziona così com'è
e non migliorerai
se ti ostini ad attendere
come acqua stagnante
non c'è nessuna corrente
dentro di te
(e non ti puoi nascondere)"
Sono parole che mi sono sentito rivolgere, sebbene in parafrasi, neanche troppo tempo fa.
Ma interrogativi me ne pongo eccome: Se non funziona così com'é non servirebbe almeno un tentativo per cambiare? e soprattutto così com'è è veritiero o è una fase? Mi sembra semplicistico...
Devo invece amaramente concordare che di corrente in me ce n'è poca e se c'è é comunque alternata. Mi lancio solo in determinati progetti o momenti ma tralascio il tutto; in certe cose non ho minimamente slanci od entusiasmi.
Dovrei senza dubbio imparare a rendermi attivo, non affidarmi ad attese o correnti.
Va da sé che questa è una frase valida verso molti individui se slegata: qualunque convinzione inamovibile è criticabile. Così chi si sente nel giusto di una scelta e confida di star agendo bene si affida parimenti ad una corrente inesistente.
Di certo tutta questa prima parte la troverei una insopportabile lettera d'addio, un po' come anche "Vedi Cara" di Guccini in cui si respira un senso di ineluttabilità, di irrimediabilità piovuta dall'alto che di tutto parla men che d'amore. Sarebbe invece bello fosse lo spunto per far ripartire, per smuovere dalla attesa stagnante.
Ancora, mi vien da pensare, buffo, che magari si può definire stagnante chi stagnante non lo è in molti campi e si attarda su altri poiché solo quelli si vedono (o vogliono vedere). E così più stagni criticano un altro stagno. Patetico...
Umano.
Poi però cambia tutto:
"E complimenti mi hai convinto che l'amore non basta
e così non mi resta
che lasciarti stare
senza nessuno che ti giudica nessuno, intendo, che ti sgrida e si preoccupa.
Sarà senz'altro
tutto molto più leggero,
ma sei sicuro che sia meglio
per davvero?"
Qui inizia il dissenso.
"L'amore non basta": se si pensa questo è fallito tutto.
Dico questo pensando che amare sia qualcosa di talmente disponibile a dare e ad attendere che possa essere sufficiente. Tutto quel che serve in una relazione quando manca l'amore, parlarsi, ascoltarsi, cercarsi, scegliersi, sacrificarsi alle volte, congiungersi, etc. non è altro che ciò che l'amore ha implicito in sè. L'amore basta eccome. Il guaio è che prima o poi tutti se ne abusa in termini e si finisce col dirlo quando non è autentico. L'amore non basta quando non c'è (simultaneamente dalle due parti in causa). Diciamola tutta.
"così non mi resta
che lasciarti stare
senza nessuno che ti giudica nessuno, intendo, che ti sgrida e si preoccupa."
Come si può non vederne la valenza? come si può protestare perché c'è chi si vuol curare di te? Almeno apprezzare, dico, dovrebbe essere il minimo. E' la parte amicale della coppia, in parte. Voler accudire, voler anche solo sapere un domani cosa capiti all'altro. Ripudiarlo è come il senso di indipendenza adolescenziale; infantile imposizione di distacco.
L'interrogativo sul
"sia meglio per davvero?" lo intendo come retorico e passo subito al punto nodale
"Volevo esserti di peso,
perché dipendo da te."
No. No, cazzo. Mai creduto nella totale e cieca dipendenza. Sentirsi satellite ok, ma solo per reciproca attrazione gravitazionale. Così come il pesare regge solo se inteso come "far sentire la propria presenza", altrimenti non mi identifico.
Non si deve pesare; è lieve il tocco di un compagno. Sempre là ma mai a gravare, a imporre scelte, a pesare.
Come nel tango: si cede il peso, si guida e si inventa ma si volteggia in coppia.
Poi, peggio ancora è il voler pesare! naaaah...
Certo, va concessa un'altra interpretazione, ove pesare non è altro che restituire la dipendenza e l'attrazioen; quanto maggiore si sente la necessità di scambio con qualcuno quanto più lo scambio viene offerto. Legge per me verificata e condivisibile, dunque. Ma non la esprimerei mai con un "esser di peso", anche se immaginando la canzone biografica è plausibile fosse l'accusa riportata per citazione.
Stessa cosa per la dipendenza. Ho già scritto tempo addietro su come il dire "sei tutto il mio mondo, la mia vita" vada preso alla lontana: la vita continua, si ride si scherza si vive. Solo che non c'è l'incanto. L'amore è un incanto. Dipendere da un incanto è una malìa e come per ogni assuefazione, esiste una cura per sciogliere la dipendenza. E' bello uguale? No. Si può vivere ugualmente? certo.
Sintesi: una canzone che dovrebbe far notare le lacune altrui si dimostra spunto di profonda autoanalisi, riprova che non esiste mai una ragione univoca. Spesso non si è disposti a mediare, attendere, ascoltare in campo affettivo, mentre talvolta bisognerebbe mettersi in gioco fino all'ultimo ché farsi la doccia all'intervallo non è il caso neanche per gli infortunati.
L'ideale sarebbe che non scegliesse mai un altro per noi ma che si scegliesse assieme.
In due la dipendenza dovrebbe più essere un ruotarsi attorno attraendosi costantemente lasciando ai momenti difficili il compito di industriarsi, cercando e ricordandosi però che si è in due nel gioco e se uno si addentra nel bosco l'altro lo aspetta con una lanterna per indicare il cammino.
Perché l'amore perfettamente ad incastro che piomba dal cielo esiste per i romanzi. Il resto, perché la vita sia un po' un telefilm, é nel lavorare perché ci assomigli.
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